Storia di Fabiana Passoni

La storia della mia malattia inizia un sabato di ottobre del 2007. Ho la giornata già organizzata, la mattina dall'estetista e il pomeriggio un po' di shopping. Mi muovo con il mio scooter,  sfreccio nel traffico,  quando, a metà del mio percorso, sento una fitta al basso ventre che mi toglie il fiato. Rallento e penso "sarà il jeans troppo stretto". Ad un semaforo lo slaccio in vita,   mi sembra vada un po' meglio, respiro profondamente e arrivo a destinazione. C'è da aspettare, ma nella sala d'attesa inizio a sudare, sento la pressione che si abbassa, ritorna il dolore lancinante. Qualcuno si accorge he non sto bene e mi ritrovo sdraiata sul lettino dei massaggi. Dopo mezz'ora mi riprendo. Con il mio solito spirito d'indipendenza risalgo sullo scooter e torno a casa. So ascoltarmi e qualcosa non va, il dolore si diffonde. Coinvolgo la mia amica Renata che chiama suo zio medico:  suggerisce delle iniezioni di un antidolorifico e consiglia di rintracciare il mio medico se il dolore non passerà dopo un paio d'ore. Alle sette di sera il dolore mi stordisce. Decido di andare al pronto soccorso dell'Ospedale Niguarda, il più vicino a casa. Codice rosso. Antidolorifico in vena, esami del sangue e radiografia. A mezzanotte il medico di guardia mi spiega che gli esami non evidenziano nulla e che può dimettermi, se me la sento. Ma non sto bene per niente.

Il dolore persiste, sordo e continuo. Decidono di fare un'ecografia. L'espressione del medico che svolge l'esame rivela che qualcosa non va. Si consulta con un chirurgo: ho del liquido nell'addome, da aspirare con un ago. Quando il medico estrae l'ago ha il volto teso: il liquido è misto a sangue. 

Prima che mi dica qualcosa penso a un tumore. Lui sospetta un'emorragia ma non è così sicuro. Decide di operare subito, mi chiede di avvisare la mia famiglia. La parola familiari è dolorosa, non so chi chiamare. Mio fratello Angelo ci ha lasciati due mesi prima. Un assurdo calo di pressione notturno, una caduta fatale in bagno. Non ho tempo per riflettere. Chiamo Renata e Paola, la badante che vive con mio padre, per non svegliare lui nel cuore della notte. Poi l'elettrocardiogramma, il freddo della stanza operatoria, l'anestesia, il sonno forzato.

Mi sveglio la mattina con un gran mal di testa e la nausea. Sono confusa, non so ancora cosa mi è successo. Mio padre ha un'espressione affranta, ma non riesco ad essere lucida con l'anestesia ancora in circolo. Supero il primo giorno, il chirurgo mi spiega con fatica che mi è stata asportata l'ovaia destra su cui aderiva una cisti di 10 centimetri, che si era torta su se stessa rompendosi: la causa delle mie fitte all'addome. Non capisco: 20 giorni prima mi aveva visitato la mia ginecologa. Ho ancora in mente la sua frase di congedo: "tutto bene ci vediamo tra sei mesi, per valutare come intervenire sulla ghiandola del Bartolino". Passano i giorni in ospedale e il mio addome è sempre gonfio, la terapia antibiotica agisce a rilento. Rimango ricoverata per 8 giorni in un clima di disordine con tratti di non professionalità. Ne parlo con mio padre, che decide di informare la direzione dell'Ospedale. Mi dimettono. La diagnosi è : rottura di cistoma ovarico torto, peritonite. 

Una domenica mattina il medico di Niguarda da cui ero cura mi chiama e insiste perché vada da lui in Ospedale. Ingenuamente penso che il tema dell'incontro siano le mie rimostranze sulla degenza. Chiedo a Benedetta di accompagnarmi. La notizia è del tutto inattesa: l'esame istologico è risultato positivo. Cioé la cisti all'ovaia si rivela un carcinoma. Il medico non riesce ad essere rassicurante: "Non si preoccupi, ho già prenotato la sala operatoria tra due giorni, interveniamo e togliamo tutto". Sono spaventata, sconcertata ed incredula. Racconto tutto a Teresa, mia cognata, che è infermiera all'Istituto Europeo Oncologico. Dopo pochi giorni la dottoressa che mi visita verifica l'esito della biopsia e decide d'intervenire. Il pensiero di non poter più avere figli mi angoscia più dell'idea di avere un tumore. Esprimo la mia preoccupazione alla dottoressa. Entro in sala operatoria con l'accordo che se ci saranno le condizioni per un intervento conservativo verrà rispettata la mia volontà di rimanere fertile, se invece le condizioni dell'ovaia di sinistra e dell'utero saranno compromesse si procederà con l'asportazione.

Al risveglio le notizie sono buone: l'intervento è stato conservativo. Mi sento sollevata, pochi giorni di degenza,  poi verrò dimessa e inizierò la chemioterapia. Ma sono confusa. Vorrei evitarla. Leggo di tutto sul tema, ma alla fine decido di seguire il trattamento di chemioterapia, anche per non rimproverarmi di non avere fatto tutto il necessario per uscire da questa esperienza.

Come spesso accade  la vita toglie e la vita dà. Incontro Giorgio, che mi sta vicino, mi ascolta e mi aiuta ad accettare la mia malattia, a farmi recuperare la voglia di vivere. Termino il ciclo di chemioterapia con carboplatino nel maggio del 2008. Mi sento bene, penso di essere guarita, riprendo il lavoro e la mia vita di sempre. Passano sette mesi e arriva il controllo.

E' il gennaio del 2009, leggo sul viso della ginecologa un'espressione poco rassicurante, mi spiega che dall'ecografia vede una massa che avvolge l'ovaia di sinistra. Sono sgomenta. Mia cognata Teresa è con me, mi consola, ma non capisco. La tesi dei medici è che può essere una forma benigna, così inizia un periodo di osservazione per valutare se la massa, che è già di 9 centimetri, si riduce.

La dottoressa che mi segue è negli Stati Uniti e il mio interlocutore è quindi il co-chirurgo del precedente intervento. Sostiene che non può accertare la natura della massa senza un altro intervento. Mi fido, finisco di nuovo sotto i ferri, per la terza volta. Ora so che non ho più alternative. L'intervento sarà demolitivo: ovaia sinistra, utero e annessi saranno asportati.

Ma stavolta ho paura per me, per la mia vita. Mi sostiene e mi aiuta a dare valore alla mia vita Flavio, il mio terapista di bioenergetica, una psicoterapia  che coinvolge mente e corpo. Sono confusa e spaventata. Metto tutto in discussione e penso di aver sbagliato e avrei dovuto fare asportare tutto nell'intervento precedente.

I medici mi rassicurano e mi dicono che non sarebbe cambiata la sorte e che la malattia avrebbe potuto aggredire altri organi. E' il 28 febbraio 2009 quando esco dalla sala operatoria, l'intervento è andato bene inizierò la chemioterapia di II linea dopo 20 giorni, modificando il "liquido magico" con il taxolo. La ripresa stavolta è più faticosa, non riesco a camminare per giorni, sono affaticata.

La vita ancora una volta è severa con me, muore mio padre all'improvviso: è il 10 marzo, sono disperata. La mia famiglia non esiste più, è il vuoto, il caos. I miei amici, Teresa, Giorgio, si stringono a me: l'amore e la solidarietà mi fanno andare avanti. Inizio il secondo ciclo di chemioterapia, che è ancora più invasivo ma con l'aiuto della dottoressa decido di proseguire e di terminarlo. Dei ricoveri per la chemioterapia ricordo l'intimità che si creava in una sola notte con le altre pazienti, con le quali si creava un'intimità speciale, un racconto di confidenze impensabili.

Sono passati 16 mesi, vado regolarmente ai miei controlli trimestrali allo IEO. Sono cambiata, apprezzo ogni momento della mia vita e non do nulla per scontato. So che il mio corpo è in prestito, ho imparato a prendermi cura della mia anima e sono alla ricerca quotidiana del mio benessere. 

Ringrazio tutti i professionisti che mi hanno accompagnato nel mio percorso di cura: il mio psicoterapeuta, gli oncologi, lo psicologo che mi ha sostenuto con l'ipnosi, il medico che mi ha coadiuvato con la naturopatia, l'associazione Attive come prima che mi ha sostenuta con gli incontri di gruppo e Franco Berrino, che mi ha insegnato a nutrirmi con consapevolezza. E ringrazio l'amore delle persone che mi sono state accanto.

Spero che la mia storia possa dare coraggio a chi scopre di avere un carcinoma ovarico.

E' una malattia che si cura. Non mi sento una sopravvissuta. Ho scoperto cos'è la vita.

Inserita il 9 marzo 2011