Il Tempo sospeso della malattia
di Ilaria Bellet
"Il tempo è un grande maestro. Peccato che uccida tutti i suoi allievi." Hector Berlioz
C’è un tempo che non compare in nessuna cartella clinica, ma che definisce profondamente l’esperienza di chi affronta una diagnosi oncologica. È il tempo dell’attesa. Un tempo lungo, irregolare, silenzioso e spietato, che accompagna ogni fase del percorso: l’attesa di una visita specialistica, spesso prenotata con mesi d’anticipo; l’attesa per un esame diagnostico, per un referto, per una chiamata. Ma anche l’attesa tra un ciclo di terapia e l’altro, tra la speranza e il timore.
Ogni paziente oncologico sa cosa significa vivere nel “frattempo”. Un tempo sospeso, dove sembra non succedere nulla, ma internamente accade tanto: l’ansia cresce, il corpo cambia, il pensiero corre veloce, e il dolore – fisico e psicologico – non dà tregua.
“Essere malati è come essere spediti in un altro Paese. Un Paese dove non parli la lingua, dove non hai soldi, dove sei improvvisamente dipendente da chiunque incontri”, scrive l’autrice e malata oncologica Barbara Ehrenreich.
Nel caso dei tumori ginecologici, questo vissuto si amplifica e si complica. Perché a tutto ciò essendo donne si aggiunge il carico di continuare, pur nella malattia, a mandare avanti la famiglia, ad accudire i figli, a lavorare, a sostenere gli altri.
Sono donne che, tra una chemioterapia e l’altra, preparano la cena, partecipano alle riunioni scolastiche, sorridono per non preoccupare chi amano. Donne che affrontano mutilazioni profonde, spesso taciute, che toccano la femminilità, la sessualità, la fertilità — e lo fanno in silenzio, con dignità, con pudore. Senza chiedere troppo, senza mostrare la fatica.
In questo tempo immobile, in cui ogni giorno pesa più di una settimana, la solitudine si fa presenza costante. Non è solo quella delle stanze d’ospedale o delle notti senza sonno. È anche quella di chi si sente trattata come un numero, come un codice da smistare nel sistema. Quando manca l’ascolto, quando le parole si fanno fredde e tecniche, la persona smette di essere tale e diventa "il caso", "la signora del letto 12", "la metastasi da rivalutare".
Eppure, il valore umano della relazione di cura può fare la differenza sempre ma anche di più proprio in quel tempo di mezzo, di attesa quando la medicina tace e il vissuto interiore grida. Serve uno sguardo che accoglie, una parola che consola, una presenza che non risolve ma riconosce.
Anche il dolore fisico, spesso minimizzato o banalizzato, ha bisogno di essere accolto con serietà. Non si tratta solo di protocolli antidolorifici, ma di comprensione autentica. La sofferenza oncologica è totale, investe il corpo, la mente, l’identità, e si prolunga oltre la fine delle terapie, talvolta anche oltre la guarigione. È una ferita aperta che continua a sanguinare nel tempo.
La sfida, allora, è riconoscere che la cura non può esaurirsi nell’atto tecnico, ma deve estendersi a ciò che accade tra un trattamento e l’altro, tra un esame e un responso. Perché anche l’attesa fa parte della malattia. E se la riempiamo di silenzi, di freddezza amministrativa, di gesti distratti, la rendiamo ancora più crudele.
“Il cancro ti toglie tutto, ma se hai fortuna, ti fa riscoprire cosa conta davvero.” da The Fault in Our Stars (Colpa delle stelle)
Occorre un’alleanza nuova tra pazienti, clinici e istituzioni: una rete che non lasci mai sole, soprattutto le donne che nonostante la malattia non smettono di essere madri, lavoratrici, mogli, figlie. È proprio lì che il nostro impegno può diventare rivoluzionario: offrire umanità quando la scienza è costretta ad attendere.